Dal brigantaggio alla Mafia




DAL BRIGANTAGGIO ALLA MAFIA




Brigantaggio e mafia non possono essere mescolati e confusi, anche se fra i due fenomeni ci sono diversi punti di contiguità. Il brigantaggio fu dettato dalla fame, dalla necessità di sottrarsi all’obbligo di leva istituito dal governo Sabaudo e può essere, almeno in parte, addebitato ai “piemontesi”.


Sicuramente la stessa cosa non si può affermare per la mafia anche dopo l’unità ci fu un “salto di qualità”. La mafia Diventò un mezzo di crescita sociale, economica e politica. Ad essa si aggregarono i rappresentanti più spregiudicati della borghesia agraria emergente (quella che si era comprata le terre dei feudi o della chiesa) e i rappresentanti più rozzi e conservatori della vecchia nobiltà. Ovviamente furono assoldati, come manovalanza le classi subalterne (contadini e braccianti) accecati dal miraggio di una facile ricchezza.



Brigantaggio, mafia ed unità d’Italia: quale nesso?



L’Unità d’Italia non si può certamente considerare responsabile della nascita di nessuno dei due fenomeni (entrambi storicamente antecedenti) ma è altrettanto certo che ai “piemontesi” ed alla miope politica di promesse mancate può essere attribuita sia l’esplosione del brigantaggio, sia il “salto di qualità” che fece la mafia quando i piemontesi, impotenti a governare direttamente il territorio, ritengono più semplice farlo mettendo a capo dei municipi i "capi-rais" o personaggi indicati da questi favorendo il dilagare della corruzione, degli intrallazzi e della guerra tra bande criminali.



E’ proprio dall’Unità d’Italia che comincia a crearsi quell’inestricabile intreccio fra mafia e politica che nessun governo (o regime) ha mai saputo (o “voluto”) debellare.

Il nuovo ceto politico capisce che gli conviene fare patti di mutuo interesse con il mafioso locale. Questi amministra la sua giustizia, anche sommaria, risolvendo problemi che l’amministrazione venuta dal nord non riesce a capire e ad inquadrare; sopperisce, col suo paternalismo interessato, a risolvere problemi che lo Stato invece accentua e, agli occhi del popolano più misero, risulta quindi più efficiente e "giusto".

I notabili locali e le nuove classi dirigenti si adattarono presto alle nuove regole, divennero presto convinti fautori, per proprio tornaconto, dell'annessione al Regno piemontese, alcuni anche per mantenere i vecchi privilegi che avevano temuto di perdere con la scacciata dei Borboni.

Perfino la tardiva distribuzione delle terre del latifondo e dei feudi ecclesiastici, iniziata nel 1861, a gente troppo misera, che finiva con l'indebitarsi per acquistare le sementi ed era costretta a svendere le terre stesse per debiti, sortì solo l'effetto di riformare i latifondi con nuovi proprietari ed acquirenti e, per giunta, a prezzi stracciati.



Il romanzo "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, "I Viceré" di Federico de Roberto illustrano molto bene gli eventi di questo periodo.



Fin dagli albori dell’unità d’Italia la Sicilia, sebbene fornisse all'Italia una parte importante dei quadri politici, funzionari numerosi e sovente ottimi, rimaneva a sua volta sotto-amministrata, così come lo era sotto i precedenti regimi. Esattamente come oggi, come se “centocinquanta anni” fossero passati senza lasciare traccia !

Ma l'assenza di una classe dirigente valida e ben determinata, che sapesse comprendere e soddisfare le esigenze ed il malcontento del popolo, ha contribuito a far nascere una profonda sfiducia e diffidenza nei confronti dello Stato centrale che ancora oggi è facile percepire.

Il nuovo governo piemontese si sovrappose, infatti, ad una struttura sociale meridionale già profondamente radicata nel tessuto sociale, senza riuscire ad interagire positivamente con essa.



Nel 1892 in Sicilia i braccianti, i minatori ed alcuni gruppi di operai si organizzarono nei “fasci dei lavoratori” che diedero vita ad una serie di lotte che durò fino all’anno successivo quando fu dichiarato lo stato d’assedio: i fasci furono sciolti e i capi incarcerati.







La distruzione dei “fasci dei Lavoratori” fece ricadere i contadini in quasi pieno Medioevo; lo stato italiano si stava dimostrando peggiore di quello Borbonico.

Nelle campagne i grossi latifondisti, che avevano detenuto interamente il potere fino a quel tempo, cominciarono ad aver bisogno sempre più di qualcuno che garantisse loro un controllo effettivo delle proprietà, sia per difendersi dal brigantaggio, sia per resistere alle nascenti pretese delle classi contadine per una più equa distribuzione del prodotto del loro lavoro.

Questo ruolo, anziché affidarlo alla classe borghese imprenditoriale con l’aiuto dallo stato, venne può comodo demandarlo ai "campieri" (perché controllavano i campi) o "gabelloti", in quanto riscuotevano, per conto del padrone, le "gabelle".



Quindi, fin dal principio, la mafia si delinea come un'organizzazione che assume dei ruoli pubblici per eccellenza, che altrove sono di competenza dello Stato.

Per conquistarsi questo ruolo i mafiosi ebbero, fin dalle origini, contatti molto stretti con il potere pubblico. A quell'epoca le collusioni più evidenti erano con il corpo dei "militi a cavallo", una forza di polizia addetta al controllo delle campagne.



Il mafioso si inserì, con un’attività tipicamente parassitaria, nel rapporto fra contadini e proprietari terrieri. Si sostituiva al proprietario lontano dalla terra fino a soppiantarlo totalmente nell’esercizio dei suoi diritti e lo ricattava, imponendogli come prezzo dei suoi servizi e della sua stessa presenza, un’assoluta libertà d’azione nei confronti dei contadini. In compenso il mafioso, attraverso un’articolata rete gerarchica di personaggi che andavano dall’amministratore al gabellotto e al campiere, difendeva il proprietario dalle rivendicazioni contadine e gli assicurava il lavoro di braccianti male remunerati e il tranquillo godimento delle rendite del feudo.

La mafia divenne uno dei mezzi più efficaci per il mantenimento effettivo dell’ordine e dell’equilibrio sociale sicché le autorità istituzionali si dimostrarono indulgenti nei suoi confronti legittimandola agli occhi della popolazione.



Così andò formandosi uno stretto legame tra potere mafioso e uomini politici che divenne una costante del panorama politico siciliano.



Ma le collusioni, anche allora, non si limitavano ai bassi livelli arrivando a toccare le autorità prefettizie (che avevano allora molto più potere che oggi) e, segno di grande continuità con l'oggi, i politici. Ed è del tutto naturale che il terreno per queste collusioni fosse più nelle città, dov'era concentrato il potere politico, che nelle campagne. In questo senso, di recente, S. Lupo ha sostenuto che è un errore considerare la mafia delle origini soltanto come mafia rurale, in quanto il ruolo delle città, come luogo politico e commerciale, era invece molto importante.



In Tale condizione i siciliani all'ingiustizia statale cominciarono a preferire la giustizia semplice e, ai loro occhi, efficace di organizzazioni settarie come la “mafia” ("l'onorata società" che almeno in quel periodo talvolta tolse al ricco e diede al povero).

La mafia che si sviluppò nella parte occidentale dell’Isola era società segreta in cui regnava l’illegalità e in cui il coraggio individuale suscitava il favore e la stima.

Di fronte ad uno Stato estraneo e ostile, si cercava sicurezza e protezione nei clan familiari che divenivano sempre più potenti.



Abbiamo già avuto modo do vedere come le politiche protezioniste adottate per favorire lo sviluppo dell'economia industriale del Settentrione colpirono duramente il Mezzogiorno, causando la massiccia emigrazione che si verificò dopo l'Unità d'Italia.







Questa emigrazione si accentuò agli inizi del '900 a causa della grave crisi agricola, un’imponente massa di contadini meridionali e in particolare siciliani emigrò nel "Nuovo Mondo", soprattutto negli USA.



Lasciare la propria patria comportava l'inserimento in una realtà culturale profondamente diversa; significava accettare i lavori più umili, i salari più modesti e il disprezzo di chi considerava lo straniero un concorrente sul mercato del lavoro.

A ciò si aggiungeva la mancanza di sostegno da parte dello Stato, per cui ogni emigrante fu spesso costretto ad appoggiarsi, in un mondo estraneo ed ostile, ad organizzazioni di mutuo soccorso fra corregionali che spesso defluivano in associazioni a delinquere.

Emigravano prevalentemente gli uomini (donne e bambini, cioè, restavano in Italia) che si dedicavano ai lavori di tipo operaio con un unico intento: il guadagno.

Così si spiega l'incredibile flusso di "rimesse", di denaro cioè inviato in patria dagli emigranti, flusso che rappresentò una straordinaria risorsa per l'economia italiana permettendo al paese acquisti di materie prime e pagamenti di debiti internazionali.



Questo fenomeno è vissuto, oggi, con le stesse caratteristiche, dalle popolazioni extracomunitarie che per motivi analoghi fuggono dai loro paesi con la speranza di una vita dignitosa.





E’ in questa maniera che la mafia venne trapiantata negli Stati Uniti dove trovò terreno fertile per un profondo attecchimento assumendo ben presto caratteristiche gigantesche. ("mano nera" o "Cosa Nostra").



Il flusso migratorio verso i paesi americani fu interrotto dal Governo italiano in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale perché servivano giovani per mandarli al fronte.



Nel corso della storia siciliana mafia e criminalità organizzata si sono mostrate profondamente intrecciate con le vicende del potere isolano (e non solo) in maniera organica e permanente. La persistenza di questo intreccio (mafia e politica) a fini di potere e di arricchimento economico ha rappresentato un fattore di resistenza alla modernizzazione della Sicilia.



Nel primo decennio del Novecento Giovanni Giolitti, lo statista più “longevo” della storia recente dell’Italia, si giovò dell’operato degli “uomini d’onore” (i gentiluomini) per rafforzare il controllo governativo dell’elettorato meridionale, specie nelle campagne.



Nel primo dopoguerra la Sicilia era controllata dalla mafia che, approfittando della confusione e del vuoto di potere seguiti alla guerra, aveva allargato la propria influenza, avendo beneficiato, durante il periodo bellico, dell’affluenza di disertori nelle file dei briganti. La mafia così rappresentò uno Stato nello Stato.

Questo stato di cose portò così anche alla negazione che la mafia, come organizzazione delinquenziale, esistesse. Lo stesso Vittorio Emanuele Orlando, in occasione delle elezioni amministrative palermitane del 1925 affermava: “Ora io vi dico che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal segno si tratta di contrassegni indivisibili dell’anima siciliana e mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo!”



Durante il regime fascista la mafia siciliana fu sottoposta a severissime misure repressive. Memorabile fu l’opera svolta dal prefetto Mori che costrinse numerosi mafiosi a trasferirsi negli Stati Uniti.

Ma quando Mori tentò di colpire i legami fra mafia e politica (il deputato fascista Alfredo Cucco, leader del fascismo siciliano, fu costretto alle dimissioni), egli stesso diventò un personaggio scomodo per il fascismo e venne rimosso dal suo incarico.



Le cose cambiarono nuovamente in occasione dello “Sbarco in Sicilia” (II° guerra mondiale.)

Lo sbarco anglo-americano in Sicilia avvenne non senza aver preventivamente stipulato solidi rapporti tra mafia siciliana e mafia americana.

Il superboss mafioso Lucky Luciano e altri grossi esponenti della malavita collaborarono attivamente allo sforzo bellico degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale.

Tale collaborazione si estese, successivamente, per la pianificazione militare dello sbarco in Sicilia, attraverso l’indicazione di contatti sull’isola che avrebbero facilitato l’offensiva nei territori occupati.

Alla fine della campagna militare agli Alleati si presentò il problema dell’amministrazione dell’isola.

Molti mafiosi riuscirono ad inserirsi nei posti chiave del governo siciliano: Don Calogero Vizzini (sindaco di Villalba), Salvatore Malta (sindaco di Vallelunga); Genco Russo, Damiano Lumia, Max Mugnani (da trafficante di droga si vedrà investito della carica di depositario dei magazzini farmaceutici americani in Sicilia), Vincenzo De Carlo (controllo degli ammassi di grano).



E’ in questo periodo che si registra una folgorante ripresa della mafia. La sua riorganizzazione ebbe un solido sostegno economico nei profitti ottenuti con il mercato nero e con altre illecite attività, sviluppate grazie alla benevolenza del governo militare anglo-americano. La mafia in questo modo riuscì ad uscire dalla clandestinità in cui era stata relegata dal regime fascista, ottenendo una legittimazione del proprio potere rapportato non più sul solo piano locale, ma su quello nazionale e internazionale.



L’agitato periodo post-bellico offrì alla mafia l’opportunità di rinforzarsi e di estendere i suoi interessi fino ad occuparsi dello spaccio di droga e del racket del commercio, nel mercato generale, nell’industria e nell’edilizia.



Negli anni '60 una nuova mafia più spietata e sbrigativa di quella tradizionale cominciò a contendere alla mafia "storica" il controllo del territorio.

Le numerose cosche mafiose entrarono in guerra tra loro in un crescendo di violenza, contraddistinta da numerosi delitti "trasversali" (per punire o eliminare intere famiglie).

Durante gli anni '80 la mafia ha incrementato ulteriormente il suo potere nonostante l’infaticabile opera degli organi di polizia e della Magistratura.

Numerosi investigatori e magistrati hanno pagato con la vita il loro impegno professionale e civile contro la "Mafia".

Le analisi moderne del fenomeno della mafia la considerano, prima ancora che un’organizzazione criminale, una "organizzazione di potere"; ciò evidenzia come la sua principale garanzia di esistenza non stia tanto nei proventi delle attività illegali, quanto nelle alleanze e collaborazioni con funzionari dello Stato, in particolare politici, nonché del supporto di certi strati della popolazione. Di conseguenza il termine viene spesso usato per indicare un modo di fare o meglio di organizzare attività illecite.

La storia della mafia, dei suoi atroci crimini, dei politici collusi e degli “onorevoli servitori dello stato” che per il bene di noi tutti hanno perso la vita (…, Impastato, …., Falcone, Borsellino, …. ) è una storia lunga, interminabile.



Per una rapida carrellata di 150 anni di mafia (dalle origini ai giorni nostri) vai nelle due sezioni “Flash di mafia”.