La questione meridionale
La forzata annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna porta all’inevitabile coesistenza sotto la stessa bandiera (Regno d’Italia) di culture storiche radicate e complesse e di realtà sociali così distanti e disomogenee da far considerare questo contrasto fra il "Nord" e il "Sud" un vero e proprio "scontro di civiltà" e storicamente moto come “Questione meridionale”.
La questione meridionale, intesa come il problema delle diversità economiche e sociali del sud, non fu argomento prioritario della politica di annessione del sud al Regno d’Italia.
Come la storia ci insegna, ad ogni conquista “militare” deve far immediatamente seguito una consolidazione del territorio e solamente a cose stabilizzare si può dar seguito all’integrazione.
Nel caso dell’Italia unificata per una decina d’anni i “piemontesi” dovettero affrontare il fenomeno del cosiddetto "brigantaggio" che minacciava le fondamenta del neonato stato unitario.
All’unità infatti non solo non aveva avuto un seguito quel miglioramento delle condizioni di disperata povertà degli strati più poveri della popolazione, ma addirittura le prospettive si presentavano ancora più cupe per l’introduzione sia della leva obbligatoria (che toglieva braccia all’agricoltura) che dell’odiosa “tassa sul macinato” in un meridione a prevalente economia agricola.
I braccianti avevano posto le loro speranze in una riforma agraria che garantisse loro la parziale distribuzione delle terre del latifondo e dei feudi ecclesiastici quale elemento di auto sostentamento. Ma la gente era troppo misera e finiva con l'indebitarsi per acquistare le sementi ed a svendere le terre stesse a prezzi stracciati per pagare i debiti. Al malcontento ed alle difficili condizioni economiche dei contadini si aggiunse il problema di migliaia di sbandati provenienti dallo scioglimento dell'esercito borbonico e di quello garibaldino.
Abbastanza scontato quindi che l’insieme di questi fattori sfociarono in una sanguinosa rivolta armata che lo stato Italiano affrontò con ogni mezzo lecito o illecito che fosse.
Nel 1860-61 le truppe “regie” trasferite nel sud ammontavano a 22.000 unità. I soldati raggiunsero quota 55.000 a fine 1861, per diventare 120 000 negli anni successivi.
Fu una vera e propria guerra civile, combattuta con ferocia da entrambe le parti e di cui fece le maggiori spese come sempre la popolazione civile: una triste situazione che si ripeté continuamente per tutta la durata della guerra civile era il saccheggio di un paese da parte delle bande di ribelli, seguito dall'intervento dell'esercito alla ricerca di collaborazionisti, che comportava sistematicamente un secondo saccheggio, la distruzione degli edifici che venivano dati alle fiamme, esecuzioni sommarie non degne di un popolo civile.
Una volta bloccati i tentativi insurrezionali, il governo centrale non prese significativi provvedimenti orientati verso un miglioramento all'economia meridionale. Anzi le condizioni del mezzogiorno entrarono in una fase ancora più critica con la crisi agraria che investì l'Europa sul finire degli anni ottanta a causa dell'invasione sul mercato dei prodotti americani, resi ora disponibili dalla velocizzarsi del trasporto su nave e da prezzi di produzione assai competitivi.
Ecco quindi che la nascita e la storia della “questione meridionale” sono un tutt’uno con la storia dell’unità d’Italia della quale è parte integrante.
La definizione questione meridionale venne usata per la prima volta nel 1873 dal deputato al Parlamento del Regno d'Italia Antonio Billia, ma attenti che sarebbe estremamente riduttivo trattare la questione meridionale esclusivamente in termini economici. Visto che le diversità con le regioni del nord sono fatte principalmente di consuetudini, di tradizioni e di solidarietà.
Ma se leggiamo quanto riportano gli studiosi su tale fenomeno è l’aspetto economico che sempre prevale nelle loro trattazioni.Tutti i dati economici dimostrano che nel 1860 non esistesse sostanzialmente alcun divario economico tra nord e sud e che quindi l'attuale povertà del sud non debba essere attribuita ad eredità pre-unitarie.
Con l’annessione al Regno d’Italia, le grandi ricchezze del Regno delle due Sicilie vengono requisite e destinate al risanamento dell'erario nazionale compromesso dall’ingente spesa pubblica sostenuta del Regno di Sardegna in occasione delle guerre di “unificazione” della nazione.
Il divario fra nord e sud comincia a presentarsi alla fine dell'800, allargandosi da quel momento in poi fino a creare l'attuale dislivello tra centro-nord e Mezzogiorno.
Questa origine della cosiddetta questione meridionale è messa in evidenza, già in quel periodo, da politici e studiosi del sud come Sidney Sonnino, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti.
Lo stesso Giustino Fortunato, benché avesse posizioni molto critiche nei confronti delle politiche borboniche e fosse (come tutti gli uomini politici del tempo) un fervido sostenitore dell'unità nazionale, sostenne che il danno maggiore inflitto all'economia del Mezzogiorno dopo l'unità d'Italia fu causato dalla politica protezionistica adottata dallo stato italiano nel 1877 e nel 1887, che a sua detta determinò "il fatale sagrifizio degl'interessi del sud" e "l'esclusivo patrocinio di quelli del nord".
Secondo una ricerca effettuata dal meridionalista lucano Francesco Saverio Nitti, lo Stato Patrimoniale del Regno delle Due Sicilie ammontava, al momento dell’unità, a 443,3 (in milioni di lire oro), pari al 66% del totale della moneta circolante nell’intero regno. I dati analoghi riferiti al Regno di Sardegna era pari a 27,1 milioni di lire, pari al 4% del totale.
Con la nascita dell'Italia unita l'attivo di bilancio del Regno delle Due Sicilie fu incamerato nelle casse del neonato Stato italiano. Tale disponibilità di moneta-oro venne utilizzata per il risanamento delle casse del regno depauperate dalla guerra e per lo sviluppo delle aree del Nord del Paese.
Furono diversi gli intellettuali (ma anche gli uomini di politica) che analizzarono le cause e denunciarono la questione meridionale.
Fra i più importanti troviamo lo storico socialista Gaetano Salvemini che Il 14 marzo 1909 pubblicò sull'"Avanti" un articolo contro Giovanni Giolitti, da lui definito “il ministro della malavita”, accusandolo di aver incentivato la corruzione nel Mezzogiorno e di essersi procurato il voto dei deputati meridionali mettendo "nelle elezioni, al loro servizio, la malavita e la questura". Giolitti è accusato sempre dal Salvemini di aver avviato il decollo economico nel nord e, nel contempo, con l’aiuto della mafia, approfittava dell’arretratezza e dell’ignoranza del sud per raccogliervi consensi.
Le leggi speciali prevedevano la concessione degli sgravi fiscali alle industrie e l’incremento delle opere pubbliche. Questo portò ad una crescita della spesa statale che andò ad alimentare i ceti improduttivi e parassitari. Tali ceti garantivano voti alla maggioranza al governo e in cambio ricevevano appalti di opere pubbliche insieme ad altri favori.
L'impoverimento abbattutosi sul meridione nei decenni seguenti all'Unità d'Italia ed il concentrarsi degli investimenti industriali al nord portarono alla formazione di un massiccio flusso migratorio, quasi assente nel periodo del governo borbonico.
L’impoverimento del Mezzogiorno pubblica istruzione influì anche sulla pubblica istruzione. Al Sud, infatti, trovarono una difficile applicazione le varie leggi che cercarono di istituire una, seppur minima, istruzione gratuita ed obbligatoria. L'onere di mantenere le scuole elementari era infatti a carico delle vuote casse dei comuni e, di conseguenza, molte amministrazioni meridionali non riuscivano ad affrontare le spese necessarie.
Solamente nel 1911 lo Stato prese in carico i costi dell'istruzione elementare ed il Mezzogiorno vide le prime scuole elementari ed una rapida diminuzione dell'analfabetismo.
Bisognerà però aspettare il secondo dopoguerra per un'istruzione di massa, e l’avvento della televisione per assistere all'utilizzo dell'italiano in sostituzione dei vari dialetti.
Anche la Prima guerra mondiale portò indirettamente ad un allargamento del divario fra nord e sud.
Il nord “industriale” venne infatti favorito dalle commesse belliche, mentre il sud “agricolo” vide privato il lavoro dei campi delle braccia dei giovani richiamati alle armi. A guerra finita, poi, fu la borghesia imprenditoriale del nord a profittare dell'allargamento dei mercati e delle riparazioni di guerra.
Lo stato fascista, desideroso di allargare il proprio consenso, prese in carico il problema dello sviluppo del meridione.
Vennero creati alcuni organismi quali l'IRI (Istituto Ricostruzione Industriale) e l'IMI (Istituto Mobiliare Italiano) per la gestione di numerose opere pubbliche che dotarono di infrastrutture le aree più depresse del paese creando lavoro e favorendo commerci ed investimenti.
Vennero migliorati porti (Napoli e Taranto), costruite strade e ferrovie, bonificate paludi e acquitrini, creati canali e acquedotti (come quello del Tavoliere Pugliese), razionalizzate e meccanizzate certe colture (come quelle dell'uva e delle olive in Sicilia).
Ma la politica agraria voluta da Mussolini, ed in particolare la meglio conosciuta “battaglia del grano” che doveva far raggiungere la completa autosufficienza dall'estero di questa fondamentale fonte alimentare, si trasformò in un danno per il sud andando a discapito di colture più specializzate e più redditizie.
Il fascismo fece ricorso a strumenti anche al di fuori dello Stato di diritto (tortura e leggi speciali) per combattere ogni forma di malavita organizzata nel Sud. Celebre fu la nomina di Cesare Mori (il "Prefetto di ferro") con poteri straordinari su tutta la Sicilia.
Ma la mafia, fortemente colpita ai più bassi livelli, non fu del tutto sradicata perché quando Mori tentò di combattere i legami fra mafia e politica (il deputato fascista Alfredo Cucco, leader del fascismo siciliano, fu costretto alle dimissioni), Mori diventò un personaggio scomodo per il fascismo e venne rimosso dal suo incarico, trasferito a Roma dove viene nominato senatore.
Anche la Seconda guerra mondiale sfavorì più il sud che il nord, quantomeno da un punto di vista politico.
Nel 1943 gli alleati stavano preparando lo sbarco in Sicilia per invadere l'Italia, e, tramite i clan operanti negli Stati Uniti, trovarono un'alleata nella mafia, che si offrì di fornire informazioni strategiche in cambio del controllo civile del sud Italia.
Il comando alleato accettò, e così le zone via via conquistate da questi passarono sotto il controllo dei vari clan mafiosi, che approfittarono della fase per consolidare, anche militarmente, il loro potere.
Al crollo dell'apparato repressivo statale conseguì il ritorno del problema del banditismo, soprattutto in Sicilia, dove certi suoi esponenti si collegarono ai movimenti politici indipendentisti, che chiedevano l'indipendenza dell'isola o l'annessione come 49º stato agli Stati Uniti (vedi il caso della banda di Salvatore Giuliano).
Dopo una serie di complesse manovre politiche la nuova costituzione repubblicana concesse una certa autonomia alla Sicilia, cosa che privò gli ultimi ribelli di ogni legittimazione politica. Però la mafia aveva già preso le distanze dai gruppi armati, ritornando in clandestinità e confondendosi fra la popolazione.
Dopo la guerra la mafia acquistò un enorme potere in alcune importanti regioni dell'Italia meridionale, prima in Sicilia e poi in Calabria e Campania.
A varie riprese il governo italiano destinò fondi allo sviluppo del Mezzogiorno, creando pure un istituto finanziario chiamato Cassa del Mezzogiorno per gestirne i flussi.
La mafia non restò certo a guardare riuscendo a dirottare denaro pubblico a discapito del finanziamento di imprese produttive ed a riciclare i proventi di crimini.
Gli investimenti statali che giungevano alle imprese spesso vennero utilizzati male creando stabilimenti industriali, da parte dei grandi gruppi del nord, in aree mal servite dalle infrastrutture, con una sede dirigenziale situata spesso lontano dagli impianti di produzione, e che semplicemente approfittavano degli ingenti capitali pubblici stanziati. Molti di questi esperimenti industriali fallirono in breve tempo con il terminare delle sovvenzioni pubbliche.
Vale un esempio per tutti: la Chimica del Mediterraneo che avrebbe dovuto costituire il fiore all’occhiello del “Polo industriale di Termini Imerese” (lì dove è stato recentemente chiuso lo stabilimento FIAT) e che invece è sempre stata un groviglio di tubi e di silos arrugginiti dalla salsedine e che non ha mai funzionato se non per assumere un po’ di gente, ormai in pensione dopo lunghi anni di parcheggio presso la Regione (imprenditrice del progetto.)
Le grandi aziende che aderivano a questi progetti e i partiti politici che li promuovevano approfittavano del contesto disagevole in cui operavano facendo ricorso a prassi clientelari nelle assunzioni, senza che venisse mai messa nessuna enfasi sulla produttività o sul valore aggiunto dalle attività imprenditoriali.
Queste pratiche malsane, dette "assistenzialistiche", ebbero come conseguenza la profonda alterazione delle leggi di mercato e l'aborto di ogni possibile sviluppo economico delle aree più depresse del paese.
I capitali privati italiani evitavano il Mezzogiorno se non incoraggiati con lo stanziamento di ingenti fondi pubblici, considerando che ogni investimento effettuato in chiave produttiva, non sovvenzionato dallo stato, fosse destinato alla perdita. Benché oggigiorno la situazione sia sensibilmente diversa, atteggiamenti clientelari perdurano ancora nella politica meridionale, e troppo spesso i grandi appalti pubblici del sud vengono affidati ai soliti grandi gruppi industriali.
Quando il governo si ritrovò a prendere provvedimenti legislativi o a negoziare accordi internazionali in ambito economico, l'attenzione si diresse, ancora, alle industrie del nord. Per esempio, quando negli anni quaranta e cinquanta emigranti italiani, soprattutto meridionali, incominciarono a raggiungere massivamente le miniere carbonifere del Belgio, il governo italiano chiese e ottenne da quello belga una tonnellata di carbone all'anno per ogni lavoratore espatriato, questo approvvigionamento non beneficiò le regioni d'origine dei minatori emigrati, essendo destinato alle fabbriche prevalentemente ubicate nelle aree settentrionali della nazione.
Negli anni sessanta e settanta le aree industrializzate vissero un periodo di sviluppo economico, incentrato sull'esportazione di prodotti finiti, chiamato miracolo “italiano”. Il fenomeno attirò manodopera dal Mezzogiorno che era ben accolta in quanto si prendeva carico dei lavori più usuranti e sgraditi senza porre problemi di rivendicazioni salariali.
A partire dagli anni ottanta l'organo giudiziario si focalizzò sulla criminalità organizzata.
Varie leggi rinforzarono la lotta contro la corruzione e la criminalità: una che istituiva sconti di pena e altri vantaggi per i collaboratori di giustizia ed i pentiti di mafia ed un’altra che prevedeva per l'appartenenza ad un'associazione mafiosa un reato più grave rispetto alla semplice associazione per delinquere.
Tutto questo permise negli anni ottanta di arrivare ad ottenere dei primi progressi nella lotta antimafia (vedi il primo maxiprocesso di Palermo).
Se in termini assoluti la situazione economica del meridione è migliorata rispetto agli anni ’70, in termini relativi nello stesso periodo il divario con il nord è drasticamente aumentato.
Ancora oggi restano irrisolti vari problemi strutturali che ipotecano le possibilità di progresso economico del mezzogiorno: la cronica carenza d'infrastrutture (e sicuramente non è il Ponte sullo Stretto che può migliorare tale condizione), la presenza di un sistema bancario poco attento alle esigenze del territorio (le vecchie grandi Banche del sud sono state via via inglobate nei grandi gruppi del nord), i ritardi di una pubblica amministrazione spesso inutile e ridondante, l'emigrazione di tanti giovani qualificati che a causa della limitata crescita economica non trovano un lavoro adeguato al loro livello culturale e alle loro aspettative, e soprattutto l'infiltrazione della malavita organizzata nella vita politica ed economica del sud, fattore questo che rappresenta il principale freno alla crescita economica meridionale.
La mafia ha bisogno della politica, in particolare dei partiti al potere, ed i partiti, pur di mantenere il potere, non disdegnano il voto della mafia. E’ così che dal secondo dopoguerra in poi il Mezzogiorno in generale, e la Sicilia in particolare, rappresenta un enorme serbatoio di voti per tutti i partiti di governo. Democrazia cristiana prima e partito socialista beneficiavano dei favori delle famiglie mafiose siciliane, fonte di voti che, secondo diversi pentiti, venivano offerti in cambio di appalti pubblici, licenze e concessioni comunali e favori vari. Anche i partiti della “seconda repubblica” non vengono meno a questa regola non scritta e pescano a piene mani senza far caso all’odore dei voti.
Nelle elezioni per la camera dei deputati del 2001 in Sicilia il partito di maggioranza (Casa delle Libertà) vince in TUTTI i collegi uninominali!
Un recente dossier del CENSIS ha infatti stabilito che senza l'influenza della criminalità organizzata l'economia meridionale sarebbe capace in un paio di decenni di raggiungere quella del nord Italia.
La questione meridionale è stata affrontata da vari studiosi ed uomini politici fra i quali:
Giuseppe Massari (1821 - 1884) e Stefano Castagnola (1825 - 1891) furono due deputati italiani che diressero una commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio fra il 1862 ed il 1863. Sebbene parziale e puramente descrittivo, il loro lavoro espose bene come la miseria e l'invasione sabauda avessero un ruolo capitale nella nascita della rivolta.
Leopoldo Franchetti (1847 - 1917), Giorgio Sidney Sonnino (1847 - 1922) ed Enea Cavalieri (1848 - 1929) realizzarono nel 1876 una celebre e documentata inchiesta sulla Questione meridionale, nella quale mettevano in luce i nessi fra l'analfabetismo, il latifondo, la mancanza di una borghesia locale, la corruzione e la mafia, sottolineando la necessità di una riforma agraria.
Giustino Fortunato (1848 –1932), è stato uno scrittore, politico e storico italiano, uno dei più importanti rappresentanti del Meridionalismo. Pubblicò nel 1879 il più conosciuto di essi, in cui esponeva gli svantaggi fisici e geografici del sud, i problemi legati alla proprietà della terra, e il ruolo della conquista nella nascita del brigantaggio. Era decisamente ostile ad ogni tipo di federalismo, e sebbene difendesse la necessità di ridistribuire la terra e di finanziare servizi indispensabili come scuole e ospedali, fu ritenuto da alcuni interpreti pessimista per la sfiducia che mostrava nei confronti delle classi dirigenti del paese nell'affrontare la questione meridionale. Fu un oppositore del regime fascista e figurò tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti.]
Benedetto Croce (1866 - 1952), filosofo storicista, rivide in chiave storiografica le vicende del Mezzogiorno dall'Unità fino al Novecento, mettendo l'accento sull'imparzialità delle fonti. Il suo pensiero divergeva parzialmente da quello del suo amico Giustino Fortunato riguardo all'importanza da attribuire alle condizioni naturali in riferimento ai problemi del Mezzogiorno. Riteneva infatti fondamentali le vicende etico-politiche che avevano condotto a quella situazione. Entrambi ritenevano fondamentale la capacità delle classi politiche ed economiche, nazionali e locali, per affrontare e risolvere la questione. La sua Storia del Regno di Napoli, del 1923, rimane il punto di riferimento essenziale per la storiografia posteriore, sia per i discepoli che per i critici.
Gaetano Salvemini (1873 - 1957), uomo politico socialista, perse la sua famiglia durante il terremoto di Messina del 1908. Concentrò le sue analisi sugli svantaggi che il sud aveva ereditato dalla storia, criticò aspramente la gestione centralizzata del paese, e predicò l'alleanza degli operai del nord coi contadini del sud.
Francesco Saverio Nitti (1868 – 1953) è stato un economista, politico, giornalista e antifascista italiano. Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia, più volte ministro. Fu il primo Presidente del Consiglio proveniente dal Partito Radicale Storico. Tra i massimi esponenti del Meridionalismo, analizzò, attraverso i suoi studi statistici, le cause dell'arretratezza del sud a seguito dell'unità d'Italia ed elaborò diverse proposte per risolvere la questione meridionale. Con l'ascesa del fascismo, fu uno dei più risoluti oppositori del regime ma, a causa di violente rappresaglie da parte degli squadristi, fu costretto all'esilio, ove praticò un'energica attività antifascista.
Dopo la Seconda guerra mondiale, propose anche un vasto programma di lavori pubblici, di irrigazione e di rimboschimento, ed affermò come altri prima di lui l'urgenza di una riforma agraria.